Effetto spettatore
Perché filmiamo e non interveniamo?
L’effetto spettatore, definito anche apatia dello spettatore o effetto testimone, è un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone. La probabilità d’intervento è inversamente correlata al numero degli spettatori. In altre parole, maggiore è il numero degli astanti, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto. Numerose variabili intervengono nel determinare l’effetto spettatore. Esse comprendono l’ambiguità, la coesione sociale e al diffusione della responsabilità. L’effetto spettatore fu dimostrato per la prima volta in laboratorio (nel 1968). In un tipico esperimento, il soggetto è o da solo o in un gruppo con altri soggetti oppure in un gruppo con dei complici dei ricercatori. Viene inscenata una situazione di emergenza e gli psicologi misurano quanto tempo occorre perché i soggetti intervengano, se intervengono. Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Ad esempio, inscenarono un esperimento con protagonista una donna in pericolo in cui i soggetti erano o soli o con un estraneo o con un amico. Il 70 per cento dei soggetti nella condizione “solo” gridarono o andarono ad aiutare la donna dopo che avevano creduto che fosse caduta e ferita mentre quando c’erano altre persone nella stanza soltanto il 40 per cento dei soggetti offrì aiuto.
Alcuni esperimenti sociali
In una prova, gli studiosi chiedevano il nome a uno spettatore. Più persone davano una risposta quando gli studiosi si presentavano per primi. Quando lo studioso dava una spiegazione (cioè, “Mi hanno rubato il portafoglio”), la percentuale di persone che offrivano assistenza era più alta (72%) di quando lo studioso chiedeva semplicemente soldi (34%). Essenzialmente, quando si chiede assistenza, più informazioni si danno a uno spettatore, più è probabile che aiuterà. Ci sono cinque caratteristiche delle emergenze che influenzano gli spettatori:
- Le emergenze implicano la minaccia di un danno o un danno effettivo
- Le emergenze sono insolite e rare
- Il tipo di azione richiesta in un’emergenza differisce da situazione a situazione
- Le emergenze non possono essere previste o attese
- Le emergenze richiedono un’azione immediata.
A causa di queste cinque caratteristiche, gli spettatori subiscono processi cognitivi e comportamentali:
- Notano che qualcosa sta succedendo
- Interpretano che la situazione è un’emergenza
- Grado di responsabilità avvertito
- Forma di assistenza
- Implementano la scelta dell’azione.
Notare — per testare il concetto di “notare”, inscenarono un’emergenza usando studenti dell’Università della Columbia. Gli studenti furono posti in una stanza — o da soli, o con due o tre estranei a completare un questionario mentre aspettavano che lo sperimentatore ritornasse. Mentre stavano completando il questionario, del fumo fu pompato nella stanza attraverso un’apertura nel muro per simulare un’emergenza. Quando gli studenti stavano lavorando da soli notavano il fumo quasi immediatamente (entro 5 secondi). Tuttavia, gli studenti che stavano lavorando in gruppi impiegavano più tempo (fino a 20 secondi) per notare il fumo. Nella maggior parte delle culture occidentali, la buona educazione impone che sia inappropriato guardarsi intorno oziosamente. Questo potrebbe indicare che una persona è impicciona o scortese. Di conseguenza, è più probabile che i passanti mantengano l’attenzione su sé stessi quando sono intorno a grandi gruppi di quando sono da soli. Le persone che sono da sole è più probabile che siano consapevoli di quanto accade intorno a loro e perciò è più probabile che notino una persona che ha bisogno di assistenza.
Interpretare — una volta che una situazione è stata notata, affinché uno spettatore intervenga deve interpretare l’incidente come un’emergenza. Similmente, le interpretazioni del contesto giocavano un ruolo importante nelle reazioni della gente dinanzi a un uomo e una donna che avevano uno scontro in strada; quando la donna gridava: “Allontanati da me, non ti conosco” gli spettatori intervenivano nel 65% delle volte, ma solo nel 19% delle volte quando la donna gridava: “Allontanati da me, non so perché mai ti ho sposato”.
Le ricerche generali sull’effetto spettatore furono condotte principalmente nel contesto di emergenze non pericolose e non violente. Uno studio (nel 2006) testò l’effetto spettatore in situazioni di emergenza per vedere se avrebbero ottenuto gli stessi risultati di altri studi (del 1968) che testavano non emergenze. In situazioni con basso pericolo potenziale, veniva dato significativamente più aiuto quando la persona era sola rispetto a quando vi erano intorno altre persone. Tuttavia, in situazioni con alto pericolo potenziale, i partecipanti messi di fronte a un’emergenza da soli o alla presenza di un’altra persona avevano una probabilità simile di aiutare la vittima. Questo suggerisce che in situazioni di maggiore gravità è più probabile che la gente interpreti la situazione come una nella quale occorre aiuto e sarà più probabile che intervenga.
Grado di responsabilità — il grado di responsabilità che sente uno spettatore dipende da tre cose:
- Se sente o no che la persona sia meritevole di aiuto;
- La competenza dello spettatore;
- La relazione tra lo spettatore e la vittima.
Forme di assistenza — ci sono due categorie di assistenza :
- Intervento diretto: assistere direttamente la vittima;
- Intervento di deviazione. L’intervento di deviazione si riferisce alla segnalazione di un’emergenza.
L’ambiguità è un fattore che influenza se una persona assiste o no un’altra che ha bisogno. Nelle situazioni in cui lo spettatore/gli spettatori non sono sicuri se una persona richieda assistenza (una situazione ad alta ambiguità), il tempo di reazione è lento (sentono una persona cadere, ma non sono sicuri se si sia fatta male). Nelle situazioni a bassa ambiguità (una persona che grida aiuto) il tempo di reazione è più rapido che nelle situazioni ad alta ambiguità. In alcuni casi di alta ambiguità, a una persona o a un gruppo può occorrere fino a 5 volte di più prima di agire rispetto ai casi di bassa ambiguità. Il numero di spettatori in ciascuna condizione non è un fattore significativo. In questi casi, gli spettatori determinano la propria sicurezza prima di procedere. È più probabile che gli spettatori intervengano nelle situazioni a bassa ambiguità e con conseguenze insignificanti rispetto alle situazioni ad alta ambiguità e con conseguenze significative.
Comprensione dell’ambiente
Il fatto che uno spettatore intervenga o no può avere a che fare con la sua familiarità con l’ambiente dove si verifica l’emergenza. Se lo spettatore ha familiarità con l’ambiente, è più probabile che sappia dove trovare aiuto, dove sono le uscite, ecc. Gli spettatori che si trovano in un ambiente nel quale non hanno familiarità con i dintorni è meno probabile che prestino aiuto in una situazione di emergenza.
Coesione sociale
E’ un’altra variabile che può influenzare il comportamento di aiuto di uno spettatore. La coesione si riferisce a una relazione consolidata (amici, conoscenti) tra due o più persone. Come suggerito dalle ricerche, più un gruppo è coeso, più è probabile che il gruppo agirà in accordo con la norma della responsabilità sociale. Per testare questa ipotesi, i ricercatori usarono studenti universitari e li divisero in quattro gruppi: un gruppo scarsamente coeso con due persone, un gruppo scarsamente coeso con quattro persone, un gruppo altamente coeso con due persone e un gruppo altamente coeso con quattro persone. Gli studenti nel gruppo altamente coeso furono poi fatti conoscere tra loro presentandosi e discutendo ciò che piaceva/non piaceva loro della scuola e altri argomenti simili. I gruppi altamente coesi con quattro membri erano quelli più rapidi e più probabili a rispondere alla vittima che credevano fosse ferita. I gruppi scarsamente coesi con quattro membri erano i più lenti e i meno probabili a rispondere a una vittima. In un esperimento ( nel 2005), i ricercatori trovarono che era più probabile che gli spettatori aiutassero una persona ferita se quella persona stesse indossando una maglia da football di una squadra che piaceva allo spettatore rispetto a una squadra che non gli piaceva. Tuttavia, quando la loro identità condivisa come tifosi di football era resa rilevante, era probabile che i sostenitori di entrambe le squadre fossero aiutati, significativamente più di una persona che indossasse una semplice maglietta.
Queste scoperte possono essere spiegate in termini di empatia. Dal punto di vista dell’identità sociale, il benessere di una persona è legato alla sua appartenenza al gruppo così che quando un’identità basata sul gruppo è rilevante, si può considerare che la sofferenza di un membro del gruppo influenzi direttamente il gruppo stesso.
Lo studio parti da Lei “Kitty Genovese” e dalla sua bruttissima storia
Il 13 marzo 1964, la ventottenne Kitty Genovese venne uccisa con una serie di coltellate mentre rientrava a casa nel Queens a New York. Dal momento in cui l’aggressione iniziò al momento in cui qualcuno chiamò la polizia passarono 45 minuti. Come mai nessuno intervenne prima, nonostante le urla della donna? Si trattava di persone insensibili? Malvagie? Apatiche? Oppure entrano in gioco altri meccanismi? Per rispondere a queste domande, psicologi sociali hanno condotto diverse ricerche negli anni, trovando una serie di risultati interessanti.
Vediamo cosa accade quando siamo spettatori occasionali:
Accorgersi dell’evento. Può sembrare banale, eppure non lo è affatto: isolati nei nostri pensieri, spesso con le orecchie tappate dagli auricolari, la vista persa a controllare i social, la nostra consapevolezza situazionale è decisamente scarsa. Un altro fattore da conoscere è la pressione temporale: quando abbiamo poco tempo non ce ne concediamo per metterci in sintonia coi bisogni degli altri. Non ci accorgiamo di quanto accade attorno a noi semplicemente perché siamo distratti.
Interpretare l’evento come un’emergenza. Se qualcosa ha catturato la nostra attenzione, dobbiamo percepirlo come un’emergenza, vale a dire attribuire il significato di situazione in cui il nostro intervento può fare la differenza. Quando ci accorgiamo che qualcosa probabilmente non va, spesso non interveniamo immediatamente ma ci guardiamo attorno per vedere come stanno reagendo le altre persone (fenomeno che prende il nome di influenza informativa). Se percepiamo che le altre persone non sono preoccupate tendiamo a non preoccuparci nemmeno noi oppure a preoccuparci meno di quanto faremmo se fossimo soli.
Una curiosità: un altro fattore che inibisce l’azione è quando la situazione riguarda due coniugi. Sembra infatti che il vecchio adagio “tra moglie e marito non mettere il dito” produca ancora effetti.
Diffusione della responsabilità. In un contesto di folla, la responsabilità ad agire tende a diffondersi diminuendo l’impatto personale inteso come motivatore della condotta di aiuto: la folla depersonalizza e diminuisce la velocità di reazione del singolo. Questo fenomeno è ancora più accentuato nelle grandi città, dove si assiste a “sovraccarico sensoriale” o “affaticamento da compassione”. Più la città è grande e minore è la probabilità di ricevere aiuto.
Conoscere la forma più appropriata di aiuto. Sapere che cosa fare, quali operazione svolgere motiva all’azione e sblocca le persone. Quando non si sa cosa fare, invece, le persone tendono istintivamente a bloccarsi per il timore di essere giudicate negativamente da chi sta intorno. Sbagliare ma fare può infondere un timore maggiore di ricevere una valutazione negativa rispetto a non fare e lasciare morire?
Sono risultati molto interessanti che mostrano alcuni aspetti del comportamento sociale umano che magari contrastano con la nostra idea di empatia o di bontà. La verità è che molte persone quella notte hanno sentito le urla di Kitty Genovese e hanno deciso di non intervenire perché le hanno scambiate per una normale lite, qualcun’altro può aver pensato che ci avrebbe pensato un’altra persona e che quindi non era necessario intervenire, qualcun’altro semplicemente non ha pensato a telefonare alla polizia.
Educare forse è la soluzione
Ci sono intere società che si fondano sulla discriminazione e sulla prevaricazione. Semplicemente, oggi ci prestiamo più attenzione, diamo nomi a ciò che prima veniva dato per scontato e cerchiamo di attivarci per spostare, almeno un po’, il corso dell’umanità.
Con l’educazione, quella vera.
Educare all’ascolto di sé, delle proprie emozioni e dei propri bisogni.
Educare all’ascolto dell’altro e all’empatia.
Educare all’uguaglianza e alla diversità: uguaglianza dei diritti, diversità di ogni essere vivente.
Educare all’integrazione piuttosto che all’esclusione.
Educare alla riflessione e al dibattito, affinché ognuno impari a sviluppare i propri pensieri, le proprie idee e sappia esprimerle, sostenerle, affermarle e confutarle.
Educare a dissentire da ciò che non ci piace, da ciò che non rientra nei nostri valori.
L’educazione, quella vera, porta alla libera espressione di sé nel rispetto dell’altro.
L’educazione, quella vera, porta alla libera espressione di sé per il rispetto di sé e dell’altro
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