Dalla provocazione all’aggressione.
Come reagire alle provocazioni
Reagire alle provocazioni: c’è un modo giusto di farlo e uno sbagliato. La psicologia ti insegna la strada per rispondere alle provocazioni senza cascare nella trappola. In questo periodo non finiscono le aggressioni ma purtroppo non possiamo allenarci ed addestrare il nostro corpo ad un reale corpo a corpo. Proviamo allora a capire meglio la nostra mente.
Provocatore: identikit psicologico
Sa tirare fuori il peggio dalle persone con cui si relaziona, sa farle arrabbiare e irritare come nessun altro, riesce a creare discussioni e litigi, è insuperabile nel farle restare male, nel disorientare e nel mettere in imbarazzo, è il provocatore: una persona comune, che però in alcuni momenti utilizza una modalità comunicativa finalizzata a colpire sul vivo l’interlocutore per vedere se e come reagisce. Di solito il provocatore lo fa in modo consapevole e al contempo automatico, cioè identifica da tempo nella provocazione un “valore aggiunto”, uno strumento per affermarsi. Riesce a far esplodere persone dotate di notevole self-control.
Difendersi dai provocatori
In genere vuole prendere un vantaggio nella relazione per gestirla come vuole lui. Ma è possibile che questo sia anche un modo per attirare l’attenzione, per emergere dall’anonimato. In altri casi è una forma di difesa: attacca per prevenire critiche e per spostare l’attenzione sull’altro. A volte fa di tutto per tirare fuori la parte più aggressiva e scomposta di una persona. In effetti chi ci casca può reagire così scompostamente da finire poi per chiedergli pure scusa. Reagire alle provocazioni in modo sano però è possibile e significa migliorare notevolmente la qualità della propria vita.
- Non reagire come lui
Non rispondere alle provocazioni con altre provocazioni o finirà nella litigata che lui tanto auspica. Non cercare di giustificarti, non sentirti in dovere di spiegare e di chiarire.
- Respira e trattieniti
Quando ti senti provocato, colpito sul vivo, è la grande occasione per cambiare: trattieniti dal reagire come al solito, ferma la tua azione “riflessa” e osservati.
- Spezza l’automatismo
Il provocatore si aspetta qualcosa da te: una chiusura, uno sguardo ferito, un insulto. Sorprendilo e simula indifferenza, stai in silenzio guardandolo con distacco. E non cedere.
E’ inevitabile: prima o poi nella nostra vita ci capita di avere a che fare con persone aggressive.
Le aggressioni nascono durante un conflitto, quando una persona sente il bisogno di proteggere i propri interessi o avverte la necessità di lottare per ottenere qualcosa, spesso a scapito degli altri.
Come si riconosce una persona aggressiva?
- interrompe o parla a voce alta per impedire agli altri di parlare;
- fa in modo che l’interlocutore non riesca ad esprimersi bene;
- l’interazione con queste persone di solito porta alla tensione;
- ci si sente energeticamente ed emotivamente esausti ad interagire.
Quindi abbiamo bisogno di trovare un solido equilibrio tra assertività ed empatia per trattare con loro.
Come trattare con l’aggressività.
Mantenere la calma
Fai un respiro profondo. Arrivare a fare qualcos’altro diffonde la tensione che sta costruendo in questo momento. Per esempio iniziare ad ipotizzare diverse soluzioni per cercare di non arrivare al conflitto.
Riconosciamo la situazione
Certo non è facile, ma se riuscissimo a non alzare noi il livello dello scontro, sarebbe più semplice. Evitiamo un tono aggressivo – ma anche un tono troppo dolce, il cui unico effetto sarebbe di far arrabbiare ancora di più l’altra persona. Seguire questa fase iniziale, aiuterà, molto probabilmente, la persona aggressiva a leggere la sua emozione e ad essere più consapevole di ciò che sta facendo.
Empatizziamo
Come abbiamo accennato in precedenza, l’aggressività è una reazione naturale che mira a proteggere o di rivendicare qualcosa. Proviamo a prendere in considerazione: che cos’ha l’altra persona da perdere in questa situazione? Cosa sta rivendicando? Come vi sentireste se foste voi in quella situazione?
Comprendere la posizione dell’altra persona non significa assolutamente che permetterò che sia aggressiva con me!
Siamo assertivi
Tenere la voce bassa – o normale – e costante. Non urliamo.
Naturalmente è importante tenere la propria posizione e non permettere all’altra persona di monopolizzare la discussione. Non sovrapponiamo le voci. Non bestemmiamo.
Messa a fuoco
Quando siamo preda delle emozioni, con estrema semplicità perdiamo il focus dell’argomento di cui stiamo parlando. Allora cerchiamo di non divagare. Se ci accorgiamo che ci stiamo allontanando dalla questione centrale, proviamo a ridefinire il focus rimettendo fuoco la questione iniziale.
Certo tutto questo non è facile, ma considerando quanto male ci fa l’aggressività delle persone, perché non provare?
Aggressori non si fermano con il Lockdown
Dati inquietanti. Numeri enormi di storie drammatiche, di persone la cui soggettività è stata lesa, ferita. Non a caso in psicologia si parla di trauma, che in greco significa appunto ferita, danno, lacerazione.
Le esperienze di vittimizzazione sono esperienze traumatiche, senza se e senza ma. Subire un’aggressione può significare per la vittima vivere una minaccia di morte (se non addirittura morte reale) o gravi lesioni e certamente è una minaccia alla propria integrità psichica. Una tale esperienza inoltre comporta sentimenti di paura intensa, impotenza e orrore.
Un’esperienza simile, dove non si sa se si sopravvivrà e dove si provano emozioni così forti, tali da essere insopportabili, segna indelebilmente, lasciando profonde ferite nella psiche della vittima.
Le principali strategie per farvi fronte.
Pensiamo ad una donna che, di notte, camminando per una strada scarsamente illuminata e poco frequentata, si imbatta in un uomo appoggiato ad un muro, che la guarda. Lei cerca di distogliere lo sguardo, ma lui continua a fissarla. Attraversa la strada per evitare di passargli accanto, al che lui le grida qualcosa. Lei fa finta di niente, accelera il passo. Di tanto in tanto rivolge lo sguardo all’uomo, che la segue. La donna inizia a correre e l’uomo con lei. Ad un tratto viene afferrata da braccia che non aveva visto. Un complice del primo uomo sembra spuntare fuori da un vicolo buio, dal lato in cui la donna camminava. L’altro li raggiunge. La donna prova ad urlare, ma una mano sulla sua bocca glielo impedisce e quasi fatica a respirare.
Sente l’odore sgradevole del fiato dell’uomo che la trattiene e non capisce cosa i due stiano dicendo. Viene trascinata nel vicolo dai due.
Loro ridono, parlando in una lingua che lei non capisce. Viene colpita da uno schiaffo e ripetutamente insultata. Prova a divincolarsi ma l’uomo che la tiene è troppo forte. L’altro le punta una lama alla gola. La donna sente di essere spacciata. Ha paura di quel che potrebbe succederle da qui a qualche istante. Potrebbero violentarla e ucciderla. Si sente impotente, completamente alla mercé dei due aguzzini. Viene malmenata e violentata. Poi lasciata sola nel vicolo. Piange, disperata. Ciò che ha vissuto è una ferita continuerà a sanguinare molto più delle ferite del corpo.
La nostra vittima probabilmente presenterà una serie di sintomi che incideranno sul funzionamento normale della sua vita. Esistono diversi tipi di manifestazioni sintomatiche connesse con le esperienze traumatiche. Ne descriverò le principali.
Sintomi di reviviscenza del trauma.
Significa che la vittima potrebbe avere pensieri intrusivi relativi al trauma che la riportano a quel momento, degli incubi ricorrenti del trauma subito o dei flashback che la riportano a quella situazione come se la stesse rivivendo.
Potrebbe iniziare ad agitarsi e stare male in qualsiasi situazione la riporti al momento del trauma (per esempio sentendo in televisione elementi che assomigliano alla lingua degli aggressori).
Sintomi di evitamento.
Significa che farà ingenti sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma; cercherà anche di evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma.
È possibile che la nostra vittima cercherà di non girare più da sola, o che eviterà di uscire di notte. Inoltre è probabile che presenti una riduzione dell’interesse o della partecipazione ad attività prima del trauma ritenute significative, o che manifesterà sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri; potrebbe anche presentare affettività ridotta, potrebbe anche manifestare sentimenti di diminuzione delle prospettive future.
Sintomi nel sistema nervoso (arousal)
Significa che molto probabilmente il livello di ansia apparirà molto più intenso rispetto al periodo precedente al trauma. Ciò potrebbe comportare: difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno; irritabilità o scoppi di collera apparentemente ingiustificati; difficoltà a concentrarsi.
Sintomi dissociativi.
Questi comprendono: la sensazione soggettiva di insensibilità, distacco o assenza di reattività emozionale; la riduzione della consapevolezza dell’ambiente circostante. Potrebbe vivere la realtà come se fosse finta, come se in qualche modo lei non appartenesse alla realtà che percepisce; depersonalizzazione, cioè potrebbe avere la sensazione di essere dissociata dal suo corpo e dall’immagine di lei stessa prima del trauma, sentendosi un’estranea a se stessa; potrebbe infine presentare amnesia dissociativa.
Se dura a lungo il post traumatico?
Se i sintomi durano dai due giorni successivi al trauma alle successive quattro settimane, si parla di disturbo acuto da stress; se i sintomi perdurano, si parla di disturbo post traumatico da stress. È necessario sapere che i sintomi possono avere un esordio tardivo, cioè possono non manifestarsi in un periodo direttamente successivo rispetto all’esposizione all’evento traumatico.
Una vittima ha bisogno di aiuto psicologico immediato, a partire dai familiari o chi le sta vicino. È possibile che, sull’onda dell’emotività il marito della vittima le dica: “Quante volte ti ho detto di non uscire da sola?! Non potevi chiamarmi?! Ti sarei venuto a prendere!!!”. Un’accoglienza del genere potrebbe avere un effetto deleterio, perché consiste in una traumatizzazione secondaria.
La vittima non si sente capita, non viene ascoltata, anzi, viene persino rimproverata. Nei casi peggiori la traumatizzazione secondaria consiste nel dire chiaramente alla vittima: “te la sei cercata: è colpa tua”.
Una traumatizzazione secondaria è pericolosissima anche perché mina nella vittima le aspettative di ricevere aiuto. “Se chi mi sta intorno non mi ascolta, chi mai potrebbe farlo?!” o ancora “Forse è vero, forse me la sono cercata. Meglio che stia zitta e non dica niente a nessuno”. Se la vittima inizia ad avere pensieri del genere, accompagnati da sentimenti di sfiducia, molto difficilmente chiederà aiuto. E il suo quadro psicologico potrebbe peggiorare.
Il primo passo post aggressione.
Il primo aiuto pertanto è necessario che giunga dalla comprensione e dall’empatia dei famigliari. Una vittimizzazione porta spesso le vittime a provare colpa e vergogna per quello che hanno subito, sentendo di aver sbagliato in qualche modo, di avere una responsabilità nell’aggressione, o addirittura di “avere qualcosa di sbagliato”, per cui l’aggressione non solo sarebbe stata da loro provocata, ma sarebbe addirittura meritata.
È importante che i famigliari per primi aiutino le vittime accogliendole, facendo in modo che non si sentano giudicate ed aiutandole a capire che non hanno colpa per quello che è successo loro.
Dopo la famiglia, il primo luogo dove in generale è importante chiedere aiuto, specialmente in caso di ferite e/o contusioni, è il Pronto Soccorso. È fondamentale che il personale medico e infermieristico sia sensibile ed empatico nei confronti della vittima, in modo da evitare ulteriori traumatizzazioni secondarie. È necessario che, chiedendole di raccontare cosa è successo, i clinici siano sensibili nel lasciarle il tempo di cui ha bisogno e che le rivolgano le domande in modo tale da non turbarla ulteriormente. È importante, infine, che il personale sanitario tenga conto dell’esperienza traumatica anche nel momento in cui sottopone la paziente ad eventuali esami clinici. Si pensi per esempio ad una vittima di violenza sessuale. Un esame ginecologico di per sé potrebbe rievocare nella donna ricordi dell’episodio traumatico. È necessario pertanto che il medico ne tenga conto ed aiuti la persona, spiegandole quali siano le procedure e a cosa servano, agendo con estremo garbo e rispetto.
Qualora la vittimizzazione non consistesse in un’aggressione fisica, ma in minacce verbali, o in comportamenti di stalking, la vittima potrebbe presentare comunque sintomi come quelli elencati prima.
In tutti i casi è necessario che la vittima CHIEDA AIUTO PSICOLOGICO. Ciò è possibile per esempio rivolgendosi presso un centro antiviolenza, o presso un Centro di Igiene Mentale. Presso le ASL, i consultori familiari, i centri psicosociali (CPS), le persone ferite da traumi possono trovare esperti psicologi, psichiatri e psicoterapeuti che potranno aiutarle a rielaborare quanto accaduto, attenuando gradualmente i sintomi per poi estinguerli in modo da riappropriarsi finalmente della propria vita.
Un percorso che curiamo da diversi anni con l’ausilio di psicologi all’interno dei nostri corsi di difesa personale.
La psicoterapia è un processo dialogico, dove molto contano le capacità di ascolto e l’atteggiamento empatico del terapeuta, che permette di rielaborare i vissuti traumatici, integrandoli nel continuum dell’esistenza della persona.
Qualunque percorso psicoterapeutico la vittima intraprenda, la terapia può dirsi conclusa nel momento in cui la sua mente non è più invasa da intrusioni di ricordi e sensazioni spiacevoli relative al trauma e non sente più l’esigenza di usare strategie comportamentali che risultano invalidanti in diverse aree della sua vita.
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